La storiella d’osteria
- intervento radiofonico -
(Hospodská historka, in Zastřená tvář poesie, NFK, Praha, 1993)
traduzione di Valeria De Tommaso
Vi sembrerà quasi insensato parlare a un tempo di poesia e d’osteria. Vi sembrerà forse addirittura forzato – e io non posso darvi torto. È proprio strano andare a cercare la poesia in osteria.
Ora però vi chiedo di avere un po’ di pazienza e vedrete che ci capiremo meglio di quando abbiamo incominciato.
Voglio parlare di un tipo di racconto aneddotico che tutti conoscete, ma che la teoria letteraria finora non ha mai definito, del quale non ha mai scritto e a cui non ha mai dato un nome. Si tratta di un genere letterario particolare, come lo sono per esempio l’epigramma, lo scongiuro o la favola. Si tratta di una forma letteraria particolare che possiede delle caratteristiche definite vere e proprie, che ha le sue leggi formali e una sua funzione specifica. La cosa più strana è che fino a oggi non è mai stata oggetto di studio, sebbene essa sia cosa frequente e comune, anzi ordinaria, direi.
Probabilmente proprio per questa sua frequenza e ordinarietà non le è mai stata data la dovuta attenzione. Succede spesso che le cose più comuni rimangano inosservate, perché non si fa loro caso e non attirano il nostro interesse, perché non sono così determinanti e per questo in apparenza poco interessanti.
Per farla breve, stiamo per parlare di un genere ancora mai studiato e registrato, un genere di letteratura orale, un genere che io ho chiamato «la storiella d’osteria».
Per iniziare ascoltate almeno un esempio.
Immaginate d’essere in una qualche stazione di campagna. Immaginate d’essere in mezzo a un gruppo di gente che aspetta il treno in ritardo. Per passare il tempo vi sedete e iniziate a chiacchierare. Il discorso passa da un argomento all’altro e ognuno, quando capita, dice la sua.
Quando si arriva a parlare di motociclette e di incidenti sulla strada, un tipo si intromette e:
«Una volta portavo mio fratello col sidecar. La gamba sinistra non l’avevo più e al suo posto c’avevo una protesi di ferro. Allora ce ne andiamo quando di colpo si stacca la carrozzina, e siccome c’avevo la protesi appoggiata alla stanga che unisce il sidecar alla motocicletta, per l’urto se ne vola la protesi e pure i miei pantaloni di pelle. Mio fratello va a finire giù in un fosso, io per terra, ma la protesi vola via andando a finire sulla strada proprio davanti a due signore che venivano dal mercato. La prima, quando la vede, sviene. Visto che non mi era successo niente, saltellando vado a prendere la mia protesi, ma quando l’afferro anche quell’altra più coraggiosa finisce a terra…»
Ecco dunque – questa storia, questo breve episodio della protesi staccata – questo è un esempio di storiella d’osteria.
Credo già che più o meno capiate a cosa mi riferisco. Da soli potete facilmente pensare a tanti altri esempi simili: basta richiamarli alla mente. Li conoscete molto bene perché ciascuno di noi una serie infinita di volte ha preso parte a un discorso nel quale confluivano i più diversi accadimenti della vita, ciascuno di noi ha una riserva di storielle comiche e meno comiche realmente accadute.
Però: fate attenzione – raccontare un fatto vissuto non ne fa automaticamente una storiella d’osteria e soprattutto: non tutti sono capaci di fare di quel racconto una storiella d’osteria. Ci può accadere qualcosa che crediamo essere incredibilmente comica e interessante – eppure non ne viene fuori altro che una comune esposizione, noiosa descrizione e pedante informazione. La cosa in sé non si esaurisce nel semplice raccontare, bensì in qualcosa di molto di più, e cioè nello stile, nell’elaborazione e nella resa formale – in forma letteraria, che di genere letterario si tratta.
Affinché diventi una storiella d’osteria dobbiamo dare al racconto lo spirito, la forma e la funzione del genere.
Iniziamo con le caratteristiche più esteriori del genere; pensiamo al modo in cui noi stessi raccontiamo le storielle d’osteria. Innanzitutto va subito chiarito che si sta parlando di un fatto realmente accaduto, affinché nessuno dubiti della sua veridicità. Questa chiarificazione iniziale è in sé l’affermazione che si tratta di una nostra personale esperienza. Se parliamo di qualcosa che non è accaduto a noi personalmente, o della quale non siamo stati neanche testimoni, possiamo tranquillamente dire che la storia riguarda qualcuno che conosciamo bene o che l’abbiamo sentita da qualcuno cui si può fare affidamento, qualcuno al quale possiamo credere. Ben sapete come appaiono certi esordi. Diciamo, per esempio: «Mentre me ne stavo una volta “all’Agnello” per il tè del pomeriggio, arriva il vecchio Karásek…» eccetera, eccetera, e il discorso già si apre come una notizia del tutto attendibile. Oppure: « Con mia sorella al corso di ballo andava una certa Petránková». Di nuovo: la garanzia di veridicità è assicurata. Oppure possiamo anche raccontare una storia che abbiamo sentito dalla bocca di chi l’ha data per vera. Pe esempio: «Pepa Strnádek mi disse una volta, mentre ce ne andavamo insieme a Lužnice, che sua zia conosceva un certo macellaio di Úval…» e anche così le garanzie sono messe in tavola. La storiella l’abbiamo da un amico e noi ce ne facciamo garanti al posto suo, il che risulta più facile utilizzando anche la forma famigliare del suo nome.
Non parlerei dell’incipit delle storie in maniera così precisa se fosse solo una mera formalità senza ulteriori significati. Questi incipit hanno infatti una loro importanza: funzionano come vere e proprie formule esorcizzanti. Dicono: ciò che state ascoltando è un episodio di vita, è un fatto reale, non è una cosa inventata. E proprio in questo la storiella d’osteria si differenzia dall’aneddoto, con il quale ha alcuni elementi in comune e con il quale confina come genere. E aggiungo subito, per chiarirci, che l’aneddoto è, per così dire, un genere elementare e trasferibile, d’intento artistico e astratto, è in fin dei conti un modello o un esempio; il suo rapporto alla storiella d’osteria è simile a quello di un’equazione generale con il calcolo concreto dei numeri specifici. L’aneddoto può iniziare con: «Un macellaio fa a un idraulico…» e via dicendo. La storia d’osteria, invece, lo stesso contenuto commediale lo esprimerebbe suppergiù così: « Una volta conoscevo un certo Sykora che faceva il macellaio…» e così via. In breve, non dovrebbe essere anonima.
Bene, ora siamo d’accordo su come la storiella d’osteria inizia: e andiamo avanti. Soffermiamoci perciò sul suo oggetto, in cosa consiste il suo contenuto.
Se paragoniamo tra loro una serie di storielle d’osteria, ci accorgiamo che la risposta non è difficile: il materiale viene preso dal mondo empirico, dalla più vicina sfera dell’esperienza. Già la premessa iniziale ne aveva fatto cenno. Non viene preso in considerazione ciò che è inventato, cioè: niente va presentato come un’invenzione. Tutto deve essere garantito come autentico – in questo genere non esiste nulla al di sopra dell’autenticità: essa stessa è il valore più alto. È vero che qui e là si ritrovano elementi lontani nel tempo e nello spazio, ma si tratta soprattutto di eccezioni che servono a confermare la regola. E la regola è: mantenetevi ben stretti a quanto vi sta intorno, nello spazio temporale della vostra esistenza.
Chiaramente, ad avere un certo fascino sono le storielle più fresche, se non di oggi, di ieri. Ascoltare questo tipo di storielle è per gli astanti un vero colpo di fortuna. Proprio chi si trova ad ascoltarle per primo, così belle fresche, ha poi la possibilità di metterci del suo e inserirle direttamente nel proprio repertorio come nuovo numero.
È chiaro sì, che vanno in un repertorio – perché ciascuno di noi possiede un proprio repertorio fisso. Chi più ricca, chi meno, ognuno ne ha una riserva pronta per ogni occasione. Le storielle d’osteria infatti possono essere improvvisate solo in parte. Si possono modificare a seconda dell’umore o del bisogno, ma la base è quella e non si cambia. Tutti abbiamo in testa una personale piccola antologia di storielle d’osteria, il più delle volte già ripetute, già sperimentate. A volte le raccontiamo meglio, altre peggio, ma la sostanza rimane la stessa.
E un’altra cosa, pure importante: la storiella d’osteria, come genere, ha i suoi guastamestieri e i suoi maestri. Ci sono persone che addirittura troneggiano sul genere. Sia perché ne conoscono una quantità incredibile, sia perché sono in grado di padroneggiare l’interpretazione e la regola del genere. Sono dei virtuosi: qualsiasi cosa tocchino, riescono a trasformarla. Sono come il leggendario re Mida che con le sole mani trasformava qualsiasi cosa in oro. Individui così geniali facilmente poi vengono sospettati di slealtà. Provate a raccontargli così per caso un’inezia qualsiasi o una seccatura che vi è capitata, e loro nel giro di due mesi ve la traducono in una forma commediale di tutto rispetto, nel pieno spirito del genere.
Però la maestria non si esaurisce nel semplice racconto.
Si tratta di questo: imparare a saper bene interpretare «Parli del diavolo e spuntano le corna», oppure «Cavar sangue dalle rape» non è tempo perso. I proverbi bisogna saperli vendere. Anche le storielle d’osteria. Il saperle poi usare al momento giusto, e nel modo giusto, corona l’opera. Perché: la storiella d’osteria non è quasi mai da sola, l’isolamento non le fa bene. In genere la ritrovate nei capannelli di persone, nei gruppi dove una storia chiama e provoca la seconda, la seconda la terza e così via. Se poi si ritrovano insieme maestri e intenditori ne vien fuori la danza delle storie, e vi assicuro che è l’ottava e l’ultima delle meraviglie.
Come vedete, siamo quasi arrivati alla fine. Direi che quasi ci capiamo. Eppure ancora non abbastanza.
Non abbiamo ancora accennato infatti al modo di elaborare il materiale empirico. Abbiamo visto come la premessa iniziale e con essa la personalizzazione e la non anonimità siano per la storia garanzia di autenticità. Persuadono l’ascoltatore che si tratta di qualcosa di vissuto, di pura realtà e verità. Noi però sappiamo che anche con tutte le garanzie del mondo la veridicità non è una cosa così semplice. La storiella d’osteria non registra come un protocollo il materiale empirico, non è la manifestazione oggettiva di un documento e del banale realismo. In sostanza, la sua poetica è libera. Essa foggia la sua materia: ignora ciò che non è essenziale, libera il racconto da tutte le lungaggini e, secondo il bisogno, pressoché arbitrariamente gonfia ed esagera. Mette in primo piano i momenti grotteschi, ama i contrasti e le sorprese, in poche parole tratta l’argomento come da commedia, lo manipola come semplice materiale, come occasione per creare.
Lasciatemi citare un’altra storiella nella quale l’iperbole grottesca è decisamente evidente, nella quale la sostanza iniziale è portata sul piano teatrale con ardire quasi estremo. Ecco come si presenta:
«Certa gente fa veramente onore e merito al mondo! Come quel mio amico Řimskej – un moravo di Haná del 54°, militare con tanto di spalline, che a nessuno osava dirgli niente e neanche guardarlo! Eravamo una cinquantina all’osteria e uno ce l’aveva con me – e questo amico mio, il famoso Řimskej, rovescia il tavolo, spacca il lampadario e in un attimo si scatena il pandemonio. Quattro guardie creparono all’ospedale, gli altri saltarono dalla finestra. E lui che le dava e le suonava, un putiferio, e all’ostessa che s’era immischiata fece saltare la dentiera. E solo quando i poliziotti fecero arrivare i pompieri che gli spruzzarono l’acqua negli occhi, solo allora Řimskej, quel famoso moravo di Haná, si sfiancò. Ma in guardina il suo spirito s’accese di nuovo, segò le catene, di quelle che si usano per i buoi, staccò gli stipiti e con quelle travi gliele dette ai carcerieri.»
Se vi sembra che questa storia, anche se presentata come vera, sia nella sua sostanza empirica fin troppo esagerata, pensate alle vostre storielle e al loro rapporto con quanto realmente successo. Riconoscerete che anche voi esagerate proprio così, che prendete simili libertà per gonfiare e ingigantire. E soprattutto: vi accorgerete che queste iperboli, queste esagerazioni teatrali alla fin fine vi appaiono più che naturali e che non sono in contrasto con la vicenda vera e propria.
E così siamo arrivati al punto in cui iniziamo a parlare non solo della storiella, ma anche della poesia. Cos’è infatti questa stilizzazione teatrale? Non è forse semplicemente un determinato procedimento poetico di cui inconsapevolmente facciamo uso? In fondo il processo poetico sta proprio lì: per mezzo di una consapevole organizzazione estetica dell’atto del raccontare accomodiamo il messaggio fondamentale della storia. Con questa commedialità infatti non mascheriamo la verità della cosa, noi non la vogliamo negare – al contrario, in questa maniera noi cerchiamo e troviamo questa verità, la più reale delle realtà, noi arriviamo al suo nocciolo, noi dissotterriamo il suo senso e la sua sostanza. La storiella d’osteria come tipologia letteraria, come forma e poetica: essa è per noi uno strumento estetico per guardare e fare nostra la realtà, è per noi uno strumento addetto alla sua comprensione e chiarificazione.
Perché poi si è creata tale forma? Da dov’è venuta fuori? Perché poi esiste e qual è il suo significato?
Il genere della storiella d’osteria serve a farci divertire meglio? Sì, essa esiste anche per questo e forse sarebbe proprio lì la sua giustificazione. E se pure servisse solo al divertimento, sarebbe un’invenzione con un suo senso e un suo valore. Essa comunque non è finalizzata al solo svago e divertimento, il suo significato non si esaurisce solo in questo.
E in che cosa consiste allora il suo senso primo? Presto detto:
Nessuno di noi fa la vita che desidera o che si immagina. Le nostre vite sono tutt’altro che un semplice, preordinato cammino. Di sicuro abbiamo in mano una parte della nostra esistenza e sta solo a noi come condurla – ma ovviamente, una parte notevole della nostra vita sfugge alla nostra volontà. Sappiamo e percepiamo bene che da questo punto di vista siamo di continuo esposti a una realtà da noi indipendente e con noi spesso per nulla indulgente. Le nostre vite sono una serie di scontri continui tra i nostri desideri e la cieca casualità, tra i nostri programmi e l’imprevisto. Che lo vogliamo o no, ci imbattiamo inevitabilmente in una parola: destino. Non la reputiamo cieca autorità, piuttosto parliamo più volentieri di dati di fatto, e con questo intendiamo tutto ciò che è più potente di noi e che ci comanda secondo la sua volontà, intendiamo tutto ciò con cui dobbiamo invariabilmente confrontarci. Così è, questa è la condizione umana.
Per fortuna a questa condizione appartiene anche ciò che l’uomo ha inventato per fra fronte alle imposizioni del destino, le cose che da solo ha messo in gioco per rafforzare e migliorare la propria posizione, per sentirsi più forte e meno vulnerabile. Tra le scoperte più preziose e fondamentali dell’uomo c’è la parola. Per non essere del tutto nudo e indifeso, l’uomo si è ricoperto di parole, si è armato di parole. La parola si trova ora tra l’uomo e il suo destino: l’uomo non è solo. E la parola impedisce che le cose arrivino all’uomo nella loro cruda indifferenza, che lo chiamino per caso e senza scelta. Con l’aiuto della lingua l’uomo fa da solo le sue scelte e rinunce – diciamo meglio: se non può scegliere le cose da solo, almeno dà loro un senso. Le parole rendono possibili quelle scelte che il peso eccessivo del destino gli nega.
La storiella d’osteria realizza oltremisura questa preziosa funzione e come strumento poetico trasferisce il materiale di vita dalla sfera dell’esistenza al piano della teatralità. I dati empirici, gli avvenimenti vissuti – essa li traspone con un ampio movimento in un’immaginaria scena del grottesco, del mito, del sogno.
In questa maniera le difficoltà vengono alleggerite, i dolori vissuti non feriscono più, le sciagure vengono sottratte alla sfera di gravitazione della crudeltà e diventano un’immagine sopportabile. La perspicace poetica della storiella d’osteria smorza ed elimina tutto ciò che pesa e duole e con l’ironia della commedialità neutralizza ciò che ci ferirebbe come un trauma. E, di nuovo, al contrario – gli avvenimenti piacevoli e allegri nel racconto si ingrossano, si trasformano in leggende amene e miti gagliardi che illuminano con il proprio splendore ogni momento in cui vengono evocati.
Così ci portiamo dietro i nostri vissuti non come materia grezza della cieca sorte, bensì in forma di piacevoli raffigurazioni poetiche che non ci tormentano, che ci fanno sentire bene, e nelle quali alla fin fine ritroviamo la nostra riserva d’oro che ci conferma che ad avere potere sulle cose non è tanto il caso quanto noi stessi.
Ma basta parlare di questo. Ho già l’impressione che ci siamo avvicinati fin troppo a quello stato d’animo che è alquanto estraneo al genere in questione, e per tornare il più velocemente possibile al nostro argomento, dovremmo subito richiamare alla mente qualcosa di allegro. L’ideale sarebbe riuscire a proiettare una comica del cinema muto. Per esempio quel meraviglioso episodio di Laurel e Hardy di quando vanno a fare una gita con le loro signorine. E che per strada finiscono in un coda di macchine senza potersi minimamente muovere. E come alla fine arrivano a litigare con quelli della macchina dietro e incominciano a demolirsi le auto a vicenda. Conoscete sicuramente questo film e sapete come va a finire. La distruzione vicendevole delle auto si propaga piano piano come un’infezione alle altre auto, gli autisti e i viaggiatori se le danno di santa ragione e ne viene fuori una delle più belle risse che uno si possa immaginare, ne viene fuori una meravigliosa devastazione d’auto che possiamo solo sognarci.
Questo episodio dei due famosi comici – è proprio la realizzazione filmica di una storiella d’osteria. L’oggetto o il soggetto era ancora decisamente reale. Immaginiamocela così, che due autisti si scontrano e che uno dei due abbia l’impressione d’aver subito ingiustamente un grosso danno. E quando per la rabbia vuole ridurre l’auto dell’altro nelle stesse condizioni della sua ne vien fuori una demolizione e distruzione reciproca. Quello che nel film c’è in più è l’esagerazione, la deformazione poetica nello spirito del genere.
E io a questo vorrei aggiungere solo una cosetta: che proprio questa esagerazione ha reso l’episodio quel che deve essere. Punto primo: invece del ricordo i partecipanti hanno tenuto a mente la storia comica per il piacere proprio e degli altri presenti. Punto secondo: dalla banalità è venuta fuori la moralità, poiché proprio l’ingrandimento grottesco dà debitamente a intendere che sotto l’impulso dell’istinto danneggiare in ugual misura anche l’auto del rivale è qualcosa di moralmente inaccettabile.
Non a caso ho citato una comica dei tempi del muto: le opere di quei tempi infatti sono spesso una diretta espressione dello spirito e della poetica della storiella d’osteria. Non per niente l’eroe per antonomasia del film muto è Charlie di Chaplin, l’eterno pasticcione. La storia d’osteria è dunque un valido metodo di rivincita dai guai. È una forma che la poesia ci offre per non sentirci così soli davanti ai guai.
Conciliare la storiella d’osteria con il concetto di poesia non è difficile; più difficile sarebbe escluderla dalla poesia, perché proprio le caratteristiche estetiche, quelle piccole, banali, semplici, hanno una vitalità tale da non farsi buttar fuori da niente e da nessuno. E in particolar modo non hanno assolutamente l’intenzione di venir meno al loro compito solo perché modesto. Per noi la storia d’osteria deve diventare immagine, comica cinematografica – per far sì che anche in noi il poeta abbia l’occasione, pur non scrivendo sonetti, di depositare qua e là nella nostra memoria al posto dei ricordi spiacevoli una storiella d’osteria.